La levatrice e la Guaritrice

racconti di antiche Streghe

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    Antriani Fidelis
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    LA LEVATRICE

    Da oltre trent’anni i bambini della vallata li portavo tutti io alla luce.
    Quelli della terza generazione erano già in buon numero, e continuavo ad amare il mio lavoro e le fragili creature che, grazie a me, avevano il primo contatto con il mondo.
    Per quanto non fossi più giovane e che altre si fossero impratichite di parti e questioni femminili, le donne seguitavano a preferirmi, perché possedevo tutte le doti necessarie per esercitare acconciamente l’arte della levatrice: decenza, buoni costumi, pazienza, esperienza, prudenza e .. piccola mano.
    Ma soprattutto sapevo mantenere i segreti.
    E quanti ne conoscevo!
    A me non si poteva nascondere nulla. Come al confessore mi rivelavano le colpe commesse: e a differenza del prete, cui viene detto soltanto quello che è stato, ero a conoscenza anche dei peccati che si intendevano fare.
    Venivano a chiedermi la vita e la morte.
    Nubili e coniugate si aspettavano da me infallibili ricette per evitare indesiderate gravidanze o provocare l’aborto di un figlio concepito al di fuori del matrimonio o in una famiglia dove le bocche già risultavano in soprannumero, a fronte delle misere risorse.
    A volte, poi, mi veniva affidato il delicato incarico di accertare la verginità di una fanciulla e controllare la liceità delle nozze. Così, oltre a essere apprezzata e riverita, ero anche temuta.
    Certo, mi pagavano, e generosamente, per il mio intervento; e per l’assistenza al parto, se anche dovevo fare soltanto mezzo miglio, pretendevo che mi menassero la cavalcatura.
    Ma sapevo che c’era chi mi invidiava il prestigio che avevo acquisito, chi desiderava soppiantarmi nella mia arte, chi mi odiava perché le cure non avevano sortito l’effetto desiderato, e anche più per quel troppo di cui ero venuta a conoscenza.
    Non mi sfuggiva che il parroco mi teneva d’occhio, perché, se c’è uno stato femminile incline a servire il diavolo, è proprio quello delle levatrici, più di ogni altra persona in grado di nuocere, all’insaputa di tutti, agli innocenti che vengono al mondo.
    Ma tiravo avanti, senza guardare in faccia nessuno.
    Seguivo la puerpera anche dopo il parto, e con lei il neonato, di cui avevo imparato a curare le malattie con erbe appropriate.
    Quando mi chiamavano perché stava per nascere un bambino, tiravo fuori dalla mia borsa un barattolo di zucca secca intrisa di olio fiorito. Ne prendevo una fetta con le molle, la scaldavo alla fiamma e con l’unguento che ne fuoriusciva alleviavo alla partoriente i dolori del travaglio. Ad ogni buon conto, non mancavo mai di appoggiarle sul seno un pezzo di quelle candele bianche accese in chiesa la mattina del Sabato Santo, che mi procurava il fratello del parroco, a cui assistevo la moglie nello sfornare un figlio dopo l’altro.
    Accanto a me, nella stanza in cui doveva venire alla luce una creatura non volevo zitelle: né ammettevo uomini, salvo il padre e il legittimo consorte, cui tuttavia permettevo di entrare solamente quando il piccolo era uscito tutto dal grembo materno: perché, per quanto il marito abbia confidenza con la moglie, va comunque salvaguardata la modestia della sposa.
    Alle gestanti raccomandavo di smettere l’abitudine di gettarsi le gugliate di filo sulle spalle mentre stavano cucendo, e facevo togliere cinture e catenine d’oro, per evitare che il bimbo nascesse con il cordone ombelicale girato intorno al collo.
    Ma a volte non bastava.
    Il primogenito della mugnaia venne alla luce cianotico, e non restò in vita che per poche ore. Lo composi con le mie mani nella bara, posandogli sul petto una coroncina di fiori, e ai genitori che tanto desideravano un figlio diedi qualche consiglio per concepirlo facilmente. Il che avvenne non molto tempo dopo.
    Però quel morticino qualcuno non l’aveva dimenticato: fui accusata di averlo ucciso io, per offrire al diavolo il suo cuore.
    I mugnai mi sostennero con le loro deposizioni, anzi, fecero aprire la tomba del bambino, perché si constatasse che il suo corpo era intatto.
    Ma l’inquisitore si rifiutò di esaminarlo, dichiarando che il diavolo, desideroso di salvare i suoi accoliti, all’occasione inganna i sensi ed appanna la vista dei buoni cristiani, per far credere vero quello che non è che facile apparenza.
    La molinara venne gettata in carcere con l’accusa di aver tentato di sviare i giudici dal loro santo compito di ripulire la contrada da eretici e stregoni.
    Prima che il marito le potesse ottenere dal vescovo la grazia della libertà, mi giunse la voce che era stata bruciata sul rogo.

    T.G.CHANU - STREGHE



    LA GUARITRICE

    Curavo ogni sorta di malanno, lo sapevano tutti, e venivano a cercarmi persino dalla città.
    Preferivo vedere il malato di persona, parlare con lui ed imporgli le mani, recitando la magica giaculatoria che avevo ereditato da mia madre; ma davo i medicamenti anche a chi veniva a consultarmi per conto di qualche altro, mettendomi in mano un oggetto che gli apparteneva, preferibilmente un capo di vestiario.
    Ci fu persino un tale che mi portò una fune, perché guarissi il suo bue: e non ebbi cuore di scontentarlo.
    Somministravo rimedi a seconda dei casi: balsami, unguenti, succhi di bacche e radici, polveri d’erbe, fiori e cortecce da mescolare a cibo o bevande.
    Da ogni specie vegetale, dal caprifoglio alla mandragora, conoscevo le virtù benefiche o nocive e il momento più propizio alla raccolta.
    A San Giovanni, l’incantata notte di tutti i prodigi, prima che si levasse il sole, scuotevo a goccia a goccia dalle foglie la guazza, raccogliendone quanta più potevo.
    Poi cercavo le sette erbe del santo in sette esemplari e in multipli di sette, e le stipavo in un vaso di terra, che sigillavo con un secondo vaso.
    Quel giorno, in chiesa, il parroco impartiva una benedizione delle erbe, che i buoni cristiani usavano per appendere agli usci delle abitazioni e delle stalle, per tenere lontani i temporali, malattie e spiriti malvagi.
    Io sistemavo con cura i miei ramoscelli odorosi sui tizzoni del focolare, e restavo a guardarli, mentre la vampa del calore li piegava pian piano, raggrinzendoli fino a ridurli in cenere bianca. Allora li ritiravo delicatamente, per conservare la polvere in boccette o intriderla d’olio e rugiada.
    Da mia nuora vollero sapere come curavo i malati. Rispose: “ Quando viene qualcuno a cercarla, mia suocera si ritira con lui in camera sua, ed io non vedo quello che fa, né sento quello che dice. Certe volte vengono a prenderla col mulo, per portarla da qualche infermo e che non lascia il letto.”
    Interrogarono anche la mia nipotina di cinque anni. Le chiesero se la nonna le avesse insegnato a sanare le piaghe.
    “Non ancora”, rispose prontamente. “Ma ha promesso che lo farà”.
    “E quando?”
    “Quando sarò come lei”
    “Come lei come?”
    “Vedova”.
    Avevo davvero intenzione di lasciarle il segreto, tramandato sino a me di generazione in generazione, a partire dalla donna che per prima, con un brivido di sgomento, aveva scoperto in sé l’arcano potere di alleviare i mali.
    La donna è per istinto maga, perché il ritmo del suo sangue si accorda con le fasi della luna e il respiro profondo della natura. Solo a poche, però, è dato percepirlo.
    Mi piaceva pensare che non avrei interrotto quella lunga catena che si perdeva nella notte dei tempi, di cui ero al momento l’ultimo anello.
    Ma ora non ero più sicura di poterlo fare.
    Tremavo, rannicchiata in un angolo della cella dove il boia mi aveva gettata come un mucchio di stracci, dopo avermi staccata dalla fune. Mi sentivo svuotata di tutto, sentimenti e memorie.
    Mi accorsi di avere le guance bagnate di lacrime.
    Allora mi sollevai, trassi un lungo respiro e adagio, dapprima a fatica, poi sempre più agevolmente, incominciai a recitare la mia giaculatoria.
    “ Benedetta sia l’ora in cui Cristo nacque, in nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. Nostro Signore Gesù andava per il mondo. Incontrò tre buoni fratelli. “ Dove andate, tre buoni fratelli?” “Al monte Oliveto, Signore Gesù” “ A fare che, miei buoni fratelli?” “ A cercare fiori ed erbe per medicare piaghe e malanni” “ Al ritorno, tre buoni fratelli, prendete lana di pecora ed olio di ramo, per guarire questa creatura e levarle il dolore, nel nome di Cristo Nostro Signore.” “ Amen”.
    Ora il ritmo delle parole mi curava come una nenia, ed una grande quiete mi scese nel cuore, penetrando in ogni fibra del mio corpo.

    T G.Chanu - Streghe

    Edited by Black&White - 19/10/2018, 13:25
     
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    Molto bello e triste al tempo stesso. Mi hai fatto venire i brividi. Grazie
     
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    Purtroppo è la realtà ,che secoli bui ,e ancora adesso c'è chi odia la stregoneria ,che poi è alla base della Medicina

    Edited by eleonore fournier - 5/4/2017, 08:29
     
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  4. .Coyote.
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    Ma queste sono le lettere veramente scritte da queste donne o è una romanzata?
     
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    La Chanu le ha estrapolate da diversi antichi documenti di testimonianze ai processi
     
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    Leggendo queste parole sembra di fare un tuffo nel passato! Molto triste!
     
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  7. LaFreyja
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    Ho percepito molta tristezza nel leggere questi scritti toccanti. È affascinante come storie così antiche vengono sentite così vicine. Purtroppo non sono stata una sacerdotessa nelle mie vite passate ma le loro parole sono così familiari.
     
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