Simbologia della Sirena Bifide

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    Simbologia sirena bifide

    Da sempre l’uomo antico ha trovato nei simboli sessuali elementi apotropaici capaci di allontanare le forze maligne ed assicurare, ad una famiglia, ad una costruzione, ad una città, fertilità, procreazione e rinascita. Da qui l’usanza, in realtà mai scomparsa da diecimila anni ad oggi, di rappresentare queste strane “forme” sessuali sui luoghi di culto e nell’architettura comune.
    Il tema è davvero molto antico, da sempre raffigurazioni di dee portatrici di fertilità erano presenti negli antri e nelle grotte, il primitivo e primigenio tempio e santuario dell’uomo, metafora del ventre gravido della dea che risulta tanto più fertile quanto più esso è umido.
    Così ecco che già in periodi protostorici gli elementi sessuali, femminili prima, e maschili poi, erano venerati come oggetti generatori di vita, Così, ad esempio, nell’antro di Çatal Hüyük, sul tetto della grotta, troviamo rappresentata una dea con le gambe divaricate dalle quali fuoriescono animali e piante, ribadendo lo stretto rapporto tra grotta e l’immensa forza creatrice della Grande Madre.
    Stesso discorso si potrebbe fare per i simboli sessuali maschili, così Erodoto narra l’usanza egizia di trasportare, da appositi sacerdoti chiamati “fallofori”, enormi priapi, seguiti da donne che portavano piccole statue di Osiride con il membro eretto. Tradizioni simili le ritroviamo successivamente in Grecia verso il 1380 a.C. legate al culto di Dioniso. Durante le feste legate a questa divinità, i sacerdoti, coperti di pelli di agnello e con il viso tinto di mosto, portavano grossi membri di capretto adattati all’inguine si che “parevano appartenere mostruosamente ad essi”. Non mancavano poi le sacerdotesse di venere, dette baccanti, con le loro danze orgiastiche “…La prima accompagna il ballo con i cembali, la seconda solleva con leggiadrissima movenza le falde di un lieve ammanto che la copre, la terza agitando i timpani e la testa lascia che la tunica spartana senza cucitura ai fianchi si apra e si sollevi, mostrandola interamente nuda, la quarta esegue la danza mistica, detta cernophoros, sostenendo il vaglio mistico nella sinistra entro il quale appare il fallo religiosamente coperto da un velo sottile”.
    La simbologia sessuale maschile e i poteri del Fascinum
    Al di là delle feste religiose vi era poi l’usanza di considerare il fallo come elemento che garantiva la fertilità e proteggeva dal male, ecco così che già presso i Cananei, gli assiri, i persiani, i babilonesi, per poi arrivare, come già visto, ai greci e romani, vi era l’usanza di scolpire tali “oscene immagini” su templi o pubbliche abitazioni.
    Tale tradizione non era estranea all’Italia antica, così ad esempio sull’architrave della porta dell’acropoli di Alatri, sono scolpiti dei falli, emblemi a Priapo che doveva proteggere la città e assicurare la fertilità dei campi, e stessa raffigurazione troviamo a Fiesole, tra le costruzioni etrusche, sui muri della case private è ancora facile scorgerli, od ancora a Volterra, Castel d’Asso, Chiusi ed Orvieto.
    Moltissimi toponimi di località abruzzesi ad esempio, poi, prenderebbero il loro nome dai numerosi phalli murari scolpiti su muri, pietre, chiese e case di tali paesi ecco così Fallo, un borgo del chetino, Monte Fallo, Fallarano o Fallascosa in provincia di L’Aquila.
    La tradizione del priapo come amuleto capace di assicurare la fertilità e proteggere dal malocchio continua in periodo medievale e rinascimentale, il fascinum, nome dell’organo maschile riprodotto in bronzo, osso, o legno era appeso al collo dei bambini o portato come ornamento dalle donne esercitando la sua influenza protettrice magica.
    In realtà la tradizione dell’”ostentatio” degli organi genitali maschili e femminili sulle mura e nei luoghi sacri non subisce mai un vero arresto, essa continua, senza interruzioni di sorta, sino pieno Medioevo. E’ così in questo periodo, fortemente dominato dalle rigide idee cristiane, che questa continua a ripresentarsi proprio in quei luoghi sacri.
    Questi simboli, ben lungi da esser gesti osceni e blasfemi, successivamente esorcizzati dalla Chiesa che le collegò al peccato universale, altro non erano che il ricordo di millenni di culti e rituali mai scomparsi e troppo ben radicati nella tradizione popolare.
    Dai simboli vulvari alla Sirena bifide:evoluzione del simbolo
    Discorso simile si può fare per i casi di ostentazione dell’organo sessuale femminile. Payne Knight, ad esempio, enumera numerose chiese romaniche irlandesi ove, su capitelli, e bassorilievi, sono raffigurate figure femminili che, con le mani, divaricano le gambe mostrando così la vulva, e simili raffigurazioni troviamo anche in Francia nonché in diverse chiese italiane. In una società fortemente “pudica” come quella medievale questo genere di raffigurazioni non era però accettabile, da qui la sua evoluzione, la donna raffigurata nell’atto di mostrare la sua vulva muta e diventa una sirena bicaudata, le gambe divaricate si trasformano così nelle due code dell’ibrido in un’operazione che dimentica o cancella il simbolo, ma solo lo trasforma e cela.
    La sirena bifide è così presente in moltissime chiese italiane, da Pavia a Bitonto, da Como ad Acerenza, in un simbolo che lunghi dal dimenticare le sue origini pagane ben ripropone, sotto altre vesti l’antica dea della fertilità e delle acque, elemento ben evidenziato proprio dalla coda di pesce.
    Questa trasformazione non risparmia neanche il mito e i racconti popolari, così ecco che sacerdotesse e maghe incantatrici che si trasformano in serpenti, come nel caso della famosa maga Alcina abruzzese descritta nel 1409 da Andrea da Barberino nel suo romanzo “Il Guerin Meschino”. E’ qui che la tradizione popolare narra di bellissime fanciulle, le ancella della maga, che una volta alla settimana scendevano nei villaggi per accoppiarsi con i giovani locali stando ben attente però a ritornare entro la mezzanotte pena il loro allontanamento dal luogo sacro e la trasformazione in serpenti.
    Strettamente legato al discorso precedente è l’apparizione, nel folklore europeo, di una figura fortemente popolare nell’area franco-provenzale: Melusina. La tradizione narra la storia di un certo Raimondino che, rifugiatosi nella foresta dopo aver ucciso per errore lo zio in una battuta di caccia, incontra la bella Melusina che si offre a lui in sposa a patto che non cerchi mai di vederla il sabato. Il matrimonio viene celebrato ma Raimondino non si attiene ai patti, ingelosito dalle misteriose assenze della giovane, egli la guarda infrangendo il tabù e facendola trasformare per sempre in serpente. Melusina è dunque, per i medievalisti Jacques Le Goff e Emmanuel Le Roy Ladurie la ninfa del bosco, la sirena il cui archetipo è la grande madre pagana, la divinità dei serpenti.
    Ma questa figura non è solo prerogativa francese, così per incontrare la Melusina italiana dobbiamo però spostarci nel borgo lucano di Aderenza, ultimamente noto per vicende templari.
    Le origini del paese risalgono alle prime tribù della Basilicata, la tradizione vuole il borgo fondato dagli Osci. Ed ecco trasparire le prime tracce della donna serpente, infatti il nome di questa popolazione deriverebbe da Opicoi o Ophikoi, termine molto simile all’”ophis” greco e che proprio individuerebbe lo stretto legame tra tale popolo ed il serpente. La Cattedrale, forse una delle più antiche di tutta l’area meridionale sorge su un antico tempio pagano di cui si possono scorgere i tratti tra le pietre della nuova costruzione. Ecco così trasparire nuovi indizi, come i due bassorilievi presenti sulla facciata della Chiesa raffiguranti Iside nella tipica iconografia che la vuole raffigurata con la mano sul petto. Molto più interessante è però l’ingresso principale ove ritroviamo l’evoluzione della figura femminile della fecondità. Così tra le due figure femminili che reggono le colonne d’ingresso al duomo, in un misto di scene di abbracci con figure mostruose tra il monito e l’esplicita sessualità, ecco che si schiude la Shelah-na-Gig lucana, la donna che mostra la sua “femminilità”. E’ però nella cripta che dobbiamo scendere per incontrare l’ultima versione di Melusina. E’ qui che in un bellissimo affresco del XVI secolo troviamo raffigurata la “Donna dell’Apocalisse” con ai piedi il mistico serpente in quella che potrebbe essere una soluzione di continuità tra le due figure. E’ però tra i bassorilievi delle colonne che si schiude a noi la bicaudata progenitrice in tutta la sua chiara simbologia.
    Se la sirena bicaudata diventa così erede delle raffigurazioni della dea della fertilità, un’altra trasformazione del messaggio appare contemporaneamente. Laddove non si può raffigurare il tutto lo si manifesta come pura simbologia di proporzione. Da immagine a simbolo, Ecco così l’ulteriore “rivoluzione” del simbolo, da qualcosa di definito e figurativo diventa segno indefinibile della intima geometria dell’edificio senza però perdere il significato arcaico di protezione e fertilità. Apare così nell’architettura e nella geometria del “sacro” la vescica piscis, elemento vulvare per eccellenza, come scaturisce dallo stesso nome, vesica in latino vuol dire proprio vagina.
    Del resto questo non può meravigliare, nel periodo medievale ogni forma geometrica è investita di una forte significazione simbolica, in questo caso espressione della scaturigine della vita, di quella primigenia idea di fertilità e protezione. Pensiamo così alle numerose piante di cattedrali gotiche francesi che celano questo simbolo, o, molto più palesemente ai moltissimi bassorilievi sui portali ove Cristo è posto nella “mandorla mistica”, il centrum del tutto, il simbolo ove tutto termina e tutto inizia.
    Se tutto questo può esser testimone di un lontano passato ecco che ancora oggi nel folklore locale italiano troviamo un’ulteriore evoluzione del simbolo. Così in vari paesi è d’uso porre sugli usci delle case, sopra portoni, incise sulle mura delle abitazioni e persino sulle culle dei neonati le forbici. A Gravina di Puglia ecco che questo oggetto è proprio raffigurato sulle mura laterali della cattolicissima cattedrale. La forbice è davvero l’ultimo stadio dell’ostentatio vulvare, è l’oggetto che, per la sua estrema simbologia uterina può garantire fertilità e procreazione alle giovani coppie di sposi, è il ricordo di atavici culti mai del tutto sopiti, ancora oggi “Guarda, assisa, la vaga Melusina, Tenendo il capo tra le ceree mani, La Luna in arco da’ boschi lontani
    Salir vermiglia il ciel di Palestina”.






    Bibliografia: Andrea Romanazzi
     
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